UNA TESTIMONIANZA ALL’ALTEZZA DEI TEMPI

2016 Incontri

Locandina

Il 18 febbraio 2016, presso il Centro Francescano Culturale Artistico Rosetum

sono intervenuti:

  • Rodolfo Casadei, giornalista
  • l’Avv. Peppino Zola, Vicepresidente Associazione Nonni 2.0
  • il Prof. Francesco Bottuiri, Università Cattolica

Buonasera, come Centro Culturale Rosetum ci mettiamo nella traiettoria della nostra tradizione, quella che parte dall’epoca di San Francesco, che aveva a cuore queste tre dimensioni: la carità, che egli ha tradotto in povertà assoluta e nel dono agli altri, poi la testimonianza e la cultura, questa terza dimensione è meno nota, anche se il “Cantico delle creature” sta all’origine della nostra poesia. Su questa strada vogliamo affrontare la povertà culturale del nostro tempo per aiutarci ad andare a fondo delle grandi questioni che lo agitano. Introdurrà l’avvocato Peppino Zola, poi interverrà Rodolfo Casadei, giornalista di Tempi, e infine il professor Francesco Botturi, Docente all’Università Cattolica.

<strong>1° Intervento di Giuseppe Zola</strong>
 

Vorrei che quello di stasera fosse l’inizio di un lavoro che via via si possa arricchire, siamo contenti di aver trovato un aiuto da parte del Centro Rosetum e ringraziamo per questo padre Marco. Vogliamo aiutarci a dare un giudizio culturale sui tre fatti insoliti che sono accaduti: le date sono il 2000, poi il giugno 2015 e infine il recente 30 gennaio. Mi riferisco al cosiddetto Family Day. In questa occasione abbiamo visto un popolo. Quando sono arrivato al Circo Massimo ho visto un popolo, mi è venuto in mente il passo di Isaia: “Alza gli occhi intorno e guarda, tutti i tuoi figli si sono radunati e vengono da lontano.” Era un popolo variegato, fatto di nonni, genitori, bambini e giovani, intellettuali e gente semplice, come accade in ogni popolo, un popolo semplice ma cosciente, che sa che non è una legge che salva, ma che voleva una legge un po’ migliore di quella attuale, che è pessima e che stravolge una tradizione millenaria. Un popolo lieto in cui si intessevano relazioni di amicizia. Mi viene in mente una frase di Chesterton, e di Chesterton ce ne vorrebbero tanti oggi: “Un bravo soldato va in guerra non perché odia chi ha davanti ma perché ama chi ha alle spalle”. Questo popolo, manifestando, ha usato parole inedite come amore, gioia, aveva un positivo dietro di sé e ha fatto proposte positive. Oggi si usa pensare che chi dissente odia, ma non è vero, non è così, è che la propria esperienza fa proporre alcune cose sulla famiglia, sui figli, sui nonni. L’esperienza porta a desiderare di tutelare il bene comune. Il concetto di omofobia, che vuole trasformare questa testimonianza in odio, è forse una delle cose peggiori della società contemporanea. Faccio due osservazioni a proposito di questo popolo. Anzitutto viene da 2000 anni di storia, ma è anche un popolo che ha ascoltato la proposta di qualcuno che, coraggioso, ha proposto un tipo di vita diversa, qualcuno che ha avuto il coraggio di parlare, anche senza mezzi. La seconda osservazione è che noi vogliamo aiutare questo popolo, per non far finire il tutto, per continuare ad essere una testimonianza per tutta la Chiesa e per tutto il popolo italiano. La persona è collegata ad un popolo, come ha osservato Giussani, il punto di vista del nesso col popolo è quello migliore per cogliere la ricchezza della persona. Questo popolo andrà oltre la questione per cui inizialmente si è mosso. Senza cultura, senza carità non si può testimoniare Cristo, cultura e carità ci permettono la passione missionaria di raggiungere tutti.
Lascio la parola a Rodolfo Casadei, il tema della serata “Una testimonianza all’ altezza dei tempi” viene da un suo articolo, che lui riprenderà nel suo intervento.

<strong>1° Intervento di Rodolfo Casadei</strong>
 

“Proteggimi da quello che voglio”, è una frase contenuta in una canzone rock ripresa da un psicologo-filosofo-scrittore coreano in un testo intitolato Psicopolitica. Egli dice quello che del resto dicono in molti filosofi e psicanalisti: i nostri desideri sono alienati da tanti fattori, caratteristici dell’attuale società, dai media alla necessità di alzare il profitto. I media in particolare ci hanno trasformato in uno sciame informe. Non è normale il desiderio da parte di una coppia omosessuale di avere un figlio. È una perversione e se la legge rende legale questo è una ingiustizia. È vero che un bambino può essere curato con amore, anche in un kibbutz (cosa che io ho visto), anche in un convento (come nel film Marcellino pane e vino). Ma se la domanda sulla sua origine non trova risposta, gli sarà difficile e doloroso costruire la propria unità psicologica, la propria identità. Oggi assistiamo ad una continua manipolazione del desiderio, c’è una sua riduzione a soddisfazione del bisogno, a godimento, a consumo. Lo dicono in tanti, ce lo dice anche la Chiesa, Don Giussani negli anni ‘80, ad un convegno della DC, vecchio partito, osservava che se il potere mira veramente al suo scopo, deve cercare di governare il desiderio dell’uomo, il desiderio è infatti l’emblema della libertà perché apre alla categoria della possibilità. Ma oggi il potere si occupa di corrispondere solo a certi bisogni, mentre altri desideri vengono esclusi. In questa situazione cosa debbono fare i cristiani, ma, aggiungo, anche gli uomini di buona volontà? Debbono rivelare la manipolazione del desiderio, richiamando al principio di realtà: le foglie in primavera sono verdi, un bambino nasce da un uomo e da una donna. Richiamare al principio di realtà, in altri termini, è richiamare al senso del limite, l’uomo non è onnipotente, non tutto ci è dovuto, non tutto è nostro diritto. Questo è infatti stato lo scopo del popolo del Family Day e, se un popolo fa questo, incide a livello culturale, sociale e dei media. Questo giudizio sul Family Day coincide con quello di Alain Finkielkraut, un filosofo francese ateo, amante di Péguy, è un giudizio che ha pronunciato a proposito del popolo di Manif pour tous, omologo e predecessore del Family Day. Egli ha detto che, salvo eccezioni deplorevoli, non è l’omofobia che ispira la resistenza al “matrimonio per tutti” ma il rifiuto di vedere la libertà usata contro la finitezza. Infatti ci si mobilita in modo vero per un dato di realtà, non per una norma, non si tratta di mettere gli individui sulla buona strada, ma di riconciliarli con la loro condizione, per la quale si rinunzia a rappresentare da soli la propria umanità, per la quale riconosco che io sono un uomo o una donna, che la dualità uomo donna è un dato, è irriducibile e se voglio fare la mia volontà, devo riconoscere di dipendere dal desiderio di un altro. Per i cristiani il Family Day è stata l’occasione per dimostrare che l’uomo è dipendenza e vive e costruisce se dipende. L’uomo è in relazione con l’altro e se non lo riconosce danneggia l’altro, testimoniare pubblicamente questo implica un prezzo da pagare, suscita ostilità ed emarginazione, chi lo testimonia, quando c’è una spartizione del potere, è fuori dai giochi. Non tutti hanno questo coraggio, a Roma eravamo tanti ma avremmo potuto essere di più, molti non hanno avuto il coraggio. Io faccio il giornalista e giro per il mondo come inviato. Nel Medio Oriente, dove i cristiani sono perseguitati, ho incontrato persone capaci di grandi sacrifici pur di continuare a dirsi cristiani e a dirlo pubblicamente. Ho conosciuto cattolici, ortodossi e altri cristiani, rapiti dagli jihadisti e poi rilasciati in cambio di riscatti che, durante i rapimenti, sono stati maltrattati e ai quali è stato proposto di abiurare, se avessero abiurato le torture sarebbero cessate. Posso dirvi, per averne intervistati molti, che la maggior parte dei rapiti, preti e laici, non abiurano e subiscono maltrattamenti. Eppure si tratterebbe solo di dire delle parole, poi, quando si sarà liberi, le si ritirerà senza che nessuno lo venga a sapere, ma essi si rifiutano di pronunciare le parole dell’abiura, chi cede si confessa, non lo tiene per sé e chiede il perdono della Chiesa con un rito particolare. Ma, se devo dire la verità, non sono solo i cristiani a fare così, anche altri uomini di altre religioni sono pronti a dare la vita per testimoniare la propria fede: musulmani, ebrei, yazidi. Questi ultimi appartengono ad un’antica religione dell’Iran, le cui donne sono state schiavizzate dall’Isis, mentre migliaia di uomini sono stati passati per le armi. Donne che sono riuscite a fuggire mi hanno raccontato la storia del loro villaggio: l’Isis dava tre giorni di tempo per convertirsi all’Islam, il villaggio ha discusso e deciso di non convertirsi, i soldati dell’Isis sono tornati, hanno portato via sui mezzi 400 maschi e i mezzi dopo sono tornati vuoti, poi hanno preso le donne e i bambini e li hanno deportati nei territori sotto il loro controllo. Perché i credenti del Medio Oriente sono in grado di fare questi sacrifici per testimoniare ciò che credono, mentre tanti credenti in Occidente non hanno più il coraggio di patire un po’ di ostilità, come l’emarginazione, per testimoniare pubblicamente quello che credono? C’è chi dice che è inutile testimoniare pubblicamente, come al Family Day, è inutile perché i giochi sono fatti, le forze sono soverchianti, l’esito è scontato. Anche per i credenti del Medio Oriente le forze sono soverchianti, l’esito è scontato, con nessuna speranza di vittoria, il loro gesto può sembrare solo simbolico. Perché questa capacità di resistenza? Io ho constatato una differenza antropologica tra l’uomo dell’Occidente e quello dell’Oriente: da entrambe le parti si è buoni e cattivi, santi e peccatori, ma l’uomo dell’Oriente vive ancora una dipendenza, una figliolanza, si sente chiamato a rendere conto a Dio. La sua dipendenza, la sua dignità e il suo onore consistono nel riconoscere questa dipendenza, egli ha fatto esperienza della paternità ed è certo di far parte di un ordine più grande. Noi, uomini dell’Occidente, ci concepiamo come individui e come individui che cercano disperatamente di darsi un noi, siamo degli orfani e, anche quando riconosciamo la verità di Dio, la nostra preoccupazione è quella di stare bene psicologicamente, di essere accettato, di piacere. Allora, per un soggetto così umanamente fragile, testimoniare la verità è stressante. Vogliamo la gratificazione psicologica, vogliamo sentirci accettati dagli altri, vogliamo piacere agli altri. Sulla gratificazione mi ha colpito la frase su un testo di Rémi Brague ed Elisa Grimi: “Molti fra i nostri contemporanei non chiedono alla religione di convertirli o santificarli, ma semplicemente di soddisfarli. Un tempo il credente osava dire ’la mia è la vera religione, io vivo secondo la vera religione’. Oggi si gloria soprattutto di poter dire ‘io sto bene’.” Sul secondo aspetto, l’aver bisogno di piacere agli altri, l’essere accettati, ho letto una articolo spettacolare sul New York Times la scorsa settimana, l’autore è uno scrittore e sceneggiatore americano, autore del romanzo American Psyco da cui poi è stato tratto il film. È un gay dichiarato che ha espresso l’intenzione, anni fa, di volersi sposare con un altro uomo, lui scrive che, a causa della cultura dei social media, siamo tutti schiavi del “like” e dell’economia della reputazione. Il culto del like ci riduce a una arancia meccanica neutralizzata, asservita allo status quo imposto dalle corporations, dobbiamo seguire un codice comune secondo cui deve piacerci tutto e la voce di tutti deve essere rispettata, allora la voce negativa, un dis-like sarà esclusa dalla conversazione. Chiunque resista al pensiero di gruppo sarà spietatamente svergognato, rischiamo che in noi prevalga un principio di precauzione che ci impone di proteggerci facendoci piacere tutto, facendoci fingere di essere educati ma solo per essere accettati dal gregge. Anziché abbracciare la natura genuinamente contraddittoria degli esseri umani con tutte le loro faziosità e imperfezioni, dice sempre questo articolo, continuiamo a trasformarci in virtuosi robot. Sembra, questa tolleranza, un addolcimento dei costumi, in realtà è aumentata la paranoia e l’angoscia, infatti le persone che abbracciano l’economia della reputazione sono le più spaventate di tutte, temono di perdere quello che ritengono il loro bene più prezioso, appunto la reputazione. È un mondo di conformismo, che soffoca chi si ostina ad avere una opinione: i bastian contrari. Viene evitato il difficile, il negativo. Presi da soli, nessuno può volere il difficile e il negativo, ma se per caso il negativo e il difficile fossero inseparabili da ciò che è interessante, avvincente, raro? Questo è il vero crimine perpetrato dalla cultura della reputazione: l’eliminazione della passione e della personalità individuale. Mi iscrivo al partito di questo scrittore di cui vi ho riferito il giudizio!!! No al “piacionismo”, no alla accondiscendenza, no al rendersi gradevoli per attirare l’attenzione altrui, no al farsi condizionare dall’opinione altrui, no alle strategie di marketing che modificano il prodotto per andare incontro al gusto dei consumatori, no alla connivenza con l’errore, col pretesto che i tempi non sono maturi per rispondere alla domanda di verità per la vita. No a questo non per rigidità, ma per una ragione fondamentale: significa non credere al valore del messaggio che si porta. Se davvero i cristiani pensano di esse toccati dalla grazia, devono anche credere nella potenza e nella grazia che è in loro. Potenza che non dipende da loro. Se annacquano il messaggio, se vogliono sfuggire al mondo e ritengono intollerabile il disprezzo del mondo, vuol dire che non credono alla forza della grazia che è in loro e alla potenza di Dio nella storia. Giovanni Paolo II, in un Angelus, diceva che nessuno si deve fare illusioni, oggi essere cristiani significa andare contro corrente rispetto alla mentalità di questo mondo, cercando unicamente la volontà di Dio e il bene del prossimo. Questa radicale fedeltà a Cristo – diceva sempre il Papa – splende nel martirio di san Giovanni Battista: egli scelse la via della coerenza dando piena testimonianza all’Agnello di Dio, al quale aveva preparato la strada e andò incontro alla morte. E Benedetto XVI ha osservato che il Battista denunciò il male anche quando riguardava le azioni dei potenti, sigillando col martirio la sua fedeltà a Cristo. Lo stesso dice il prete di Desio Luigi Giussani ne “Il cammino al vero di un’esperienza”, dove afferma: “Il richiamo cristiano deve essere deciso come gesto elementare nella comunicazione. La prima condizione per raggiungere tutti è una iniziativa chiara di fronte a chiunque, può essere una illusione segretamente coltivata quella di introdursi nell’ambiente con una indecisione tale da sminuire il richiamo, nel timore che il suo urto verso la mentalità corrente indisponga gli atri verso di noi e crei insormontabili incomprensioni e solitudini. Si possono così cercare, magari con ansiosa scaltrezza, accomodamenti e camuffamenti che rischiano troppo facilmente di rappresentare dei compromessi dai quali poi è arduo liberarsi. Non dobbiamo dimenticare che questa mentalità non esiste solo fuori di noi ma ci permea fin nel profondo, per cui l’indecisione nell’affrontarla può costituire una situazione rovinosa anche per noi stessi.”

<strong>1° Intervento di Francesco Botturi</strong>
 

Vorrei lavorare sul titolo di questo incontro, la mia riflessione si intreccia con quella di Rodolfo. Propongo tre riflessioni, che ci aiutino a non dare per scontato ciò che crediamo di sapere. La terza riflessione, un po’ più lunga, vuole arrivare a qualche conclusione operativa.

I Riflessione
“Una testimonianza all’altezza dei tempi” è un bel titolo, ma può anche essere ambiguo perché potrebbe voler dire che la testimonianza si deve conformare ai tempi. È impreciso perché la testimonianza di Cristo è tanto più autentica quanto più è misura a se stessa, pone essa stessa le condizioni del suo significato, non se le fa attribuire, non ha bisogno di essere accludente. Mi ha sempre colpito Padre Pio: ha vissuto nel ‘68 quando le parole d’ordine erano anti-tradizione, anti-autoritarismo, il politico sopra tutto… Il fatto che Padre Pio abbia fatto tutto il contrario è un segno interessante, che poi nella storia della Chiesa si ritrova in molti santi che sono, diremmo noi, inattuali, perché hanno un altro ritmo e la loro testimonianza nasce unicamente dalla condivisione del pensiero di Cristo, dalla convivenza con lui. Questo penso sia fondamentale: la testimonianza non è una dottrina che si trasmette, non è un concetto morale, è qualcosa che nasce da una convivenza. Significa che la fede non ha bisogno di certe condizioni per essere in grado di testimoniare, e che la testimonianza è assoluta, cioè sciolta da condizioni previe. Ricordiamo il Vangelo di San Giovanni quando Cristo dice di non preoccuparsi di quello che diremo quando saremo portati davanti al tribunale del potere, perché lo Spirito ci suggerirà cosa dire.

II Riflessione
La testimonianza è coinvolgente, coinvolge chi la dà, che per questo testimonia, e si propone di coinvolgere chi la riceve. Che sia coinvolgente vuol dire che riguarda tutto l’uomo, secondo tutte le sue dimensioni, in qualunque situazione sia, individuale, sociale, politica. Cioè la testimonianza, oltre ad essere assoluta, non ha ragioni di limite, non ha bisogno di condizioni o interlocutori privilegiati, è in qualsiasi condizione, con qualsiasi interlocutore. È impossibile che una discussione interessante si blocchi su un problema di questo tipo: non esiste la possibilità di distinguere tra dimensione appropriata o non appropriata alla testimonianza. Tutto ciò assume una valenza particolare nella condizione laica e alla luce del Concilio Vaticano II che, con il Papa, è il punto più autorevole della Chiesa. Al centro della modernità troviamo l’esempio di Tommaso Moro, grande umanista, uomo affettuoso e raffinato che, quando è stato il momento, ha dato la vita di fronte a tutte le nazioni dell’Europa di allora dicendo no a un matrimonio fasullo, no alla strumentalizzazione della Chiesa, no all’inizio di una religione di Stato. E mi si permetta di ricordare una cosa poco ricordata nella oleografia alla Zeffirelli: Cristo è stato un uomo pubblico, ha incontrato Nicodemo di notte, ha accolto bambini, vecchietti, peccatori, ma tutto il suo cammino era programmato per arrivare all’incontro pubblico massimo, quello con Gerusalemme, con i potenti giudei del tempo. O lui o loro, o la fede o la legge. Dobbiamo ricordarci che siamo figli di costui, Cristo ha vissuto tutto l’arco delle relazioni umane sino al massimo della relazione pubblica, dove ha lasciato la sua vita. Se fosse stato un personaggio privato o provinciale, non lo avrebbero disturbato, sarebbe morto serenamente a 80 anni. Giovanni Paolo II è stato un Papa della confessione pubblica della fede: ricordiamoci le vicende di Solidarnosc, il suo rapporto corretto e non intrigante o clericale, ma di sostegno e guida morale, spirituale, teologico per quel grande movimento spontaneo. Poi questo Papa ha esposta la dottrina sociale della Chiesa, cioè il pensamento che la Chiesa fa per tutti i fedeli a riguardo dell’essere soggetti sociali. E poi pensiamo a Papa Francesco che si vuole considerare come campione dell’intimismo, del rapporto a due, invece il suo tema dell’incontro, che prende da Guardini, ci è assai vicino e si riferisce ad un annuncio coinvolgente. E questo stesso Papa, dopo l’enciclica Evangelii Guadium, ha scritto la Laudato si’. In essa traccia un quadro della cultura e della società contemporanee richiedendo una iniziativa culturale, sociale, politica che, se intrapresa, porterebbe ad una rivoluzione radicale del sistema di vita occidentale. Al di là delle polemiche facili, Rodolfo descrive bene un clima dove la dimensione sociale del vivere è obnubilata, l’individualismo è così sistemico che non riusciamo a concepirci come esseri relazionati, siamo degli incivili nel senso letterale, non c’è più una vita civile. Il politico è una grande procedura pubblica, poi c’è la privatezza, in mezzo non c’è nulla. Non si sa più cosa sia la categoria del civile. Eppure la tradizione cattolica per tutta la modernità ha sempre indicato la società civile come nesso sano tra individuo e potere politico. Qual è il problema? È che la Chiesa e le comunità cristiane hanno un compito preciso, non devono assumersi tutti i compiti ma dovrebbero aver una permanente educazione al giudizio culturale, alla vita sociale, alla cittadinanza politica. Oggi la Chiesa in Europa non sta facendo questo, anzi quando incontra un popolo come quello del 30 gennaio, la Chiesa, qui intesa come gerarchia, non lo riconosce come oggetto della sua educazione, tanto l’individualismo è divenuto una seconda natura. Ma solo il fatto che la gente davanti a certe urgenze si metta insieme vuol dire che desidera essere un soggetto sociale.

III Riflessione
Voglio semplicemente fare un commento a quello che diceva Rodolfo, da un punto di vista strutturale. Lui ha dato i lineamenti corrompenti di questo narcisismo culturale, i cui caratteri sono quelli adolescenziali. Siamo davanti ad una adolescenza protratta dell’uomo occidentale. Ci è stato detto autorevolmente che la testimonianza che dobbiamo rendere oggi avviene in un contesto di un cambiamento d’epoca, e sottolineo, non in un’epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca. Cosa vuol dire? Vuol dire che i quadri tradizionali non sono più attuali, che i rapporti geopolitici mutano, i poteri reali cambiano di sede, le istituzioni non sono più efficaci, non fanno il loro lavoro, non gestiscono più la rappresentanza e il bene comune, i poteri reali sono dislocati, funzionano in modo più dislocato rispetto a prima. Ciò fa si che i poteri tradizionali sono sempre più irreali. Si parla di globalizzazione, essa è fatta di strumenti tecnologici, di funzionamenti finanziari. Come ha avvertito il Papa, è una falsa unificazione del mondo: non lo unifica, lo omogenizza, che è una cosa completamente diversa. La globalizzazione non promuove la socialità, non estende la comunicazione, non mette in relazione strutture pubbliche. Al contrario, l’effetto è completamente divisivo, cioè accentua le differenze, perché è una globalizzazione sulla base economico-finanziaria che sarà operata da quel potere economico finanziario e tecnologico, non certo da altre realtà. Quindi è una omogeneizzazione piramidale, dove diventano simili tra loro solo centri di potere, non il mondo, la globalizzazione non unifica ma omologa. Ha come tendenza, quella di dissolvere le comunità particolari non è interessata a conservare le realtà vissute, fatte di tradizioni radicate in costumi. Queste realtà sono fatte vivere come in uno zoo, quello che conta è il centro, i poteri reali sono sempre più impolitici (lo dicono tutti i politologi), non funzionano, a cominciare dallo Stato sino al sindacato e ai partiti, perché appunto i poteri sono altrove, non sono più a loro misura. È una oggettiva minaccia per la democrazia che infatti è sempre più riconducibile a persone, non a partecipazione. Tutti i poteri della globalizzazione scavalcano i poteri tradizionali e danno l’impressione di un potere lontano, che induce le persone a un riflusso nel privato, è un individualismo che si rassegna ad essere impotente, purché si salvi il proprio benessere. Non ci si rende conto che questa nuova forma e queste dinamiche del potere sono molto più potenti e capillari di quelle precedenti e hanno interesse all’atomizzazione sociale, ci sono singoli atomi sociali omogeneizzati, si ha a che fare con gruppi che sono resi simili l’uno all’altro. C’è uno slogan significativo al proposito: interessano individui gaudenti, non comunità viventi. Ci sono sempre più gruppi privilegiati da un lato e masse di diseredati dall’altro. La Laudato si’ lo dice in continuazione: la globalizzazione solidifica e legittima le differenze di ricchezza e di potere sempre maggiori e la ricchezza di oggi è molto maggiore che in passato. Questo cosa vuole dire? Che si ha l’impressione che una testimonianza pubblica non sia necessaria perché non c’è più lo spazio pubblico, è uno spazio pubblico fasullo, un teatrino dove non impegnarsi. Il potere però è più forte di prima, solo che non lo si coglie. C’è dunque un problema di intelligenza, il problema di capire dove sia la rappresentanza politica oggi, su cosa si eserciti effettivamente il potere, che cosa sia oggi politica. E’ una domanda cui nessuno sa rispondere perché non ci si fa questa domanda. Il cristiano sta tranquillamente a questo gioco in cui, per parlare con Weber, è chiusa la grande gabbia di ferro, tanto più grande di prima da sembrare vuota. Negli anni ‘50 e ‘60 il potere era molto più artigianale, oggi c’è un potere reale che decide della sorte della masse e determina anche impressionanti spostamenti geopolitici. A ciò si aggiunge, e faccio solo un cenno, il fatto che la cultura dell’oggi, di cui un aspetto importante, non l’unico, è il già citato narcisismo, che la grande cultura, in termini moderni, è in liquidazione. Fino agli anni ‘50 la cultura era trasmessa tramite alcune grandi idee che erano la gloria del mondo moderno. Erano i grandi universali, che erano posti in sostituzione della religione. Erano valori come Scienza, Tecnica, Progresso, Rivoluzione. Il moderno credeva in queste cose: erano lo scenario in cui ci si muoveva. La cultura post moderna è la liquidazione di tutto questo. Se vogliamo, resta qualcosa nei termini di desiderio, tecnica, libertà, diritto, ma tutti con la minuscola. La tecnica suscita desiderio, dà spazio alla libertà che poi chiede la giuridificazione. Da qui la richiesta di continui diritti dove l’uomo si sente gratificato, prendendo le briciole di un apparato che gli sta alle spalle, sopra e sotto e che lui non gestisce. È la crisi dell’umanesimo occidentale, è una cultura circolare, fatta di tecnica-desiderio-libertà-diritti che non va molto lontano, perché è una continua riaffermazione di sé. Allora cosa significa testimonianza in queste condizioni, se il mondo in cui stiamo vivendo è questo, dove il riflusso nel privato è una perfetta illusione, è proprio un rifugio, è una decadenza, in una Europa che si sta spegnendo? Significa la speranza di sempre, quella che abbiamo detto prima, in partenza sproporzionata rispetto ai grandi giochi di potere. È assolutamente vero ciò che dice San Paolo in lungo e in largo, cioè che Dio vince con la debolezza, però questo non vuol dire che devi vivere in una finta ingenuità che rasenta la stupidità e la irresponsabilità, devi invece vivere la testimonianza come evento di grazia, sproporzionato al mondo perché si lascia anche sconfiggere dal mondo, come sempre, è la vicenda di Cristo. È però una testimonianza che sa con chi ha a che fare, sa dove sta l’amico, cioè c’è una testimonianza che è anche fatta di un lavoro a misura delle grandi questioni in cui l’uomo è oggi coinvolto. Non possiamo in nessun modo lasciar perdere questo lavoro come qualcosa che non conta, anzi ci verrà chiesto conto di ciò. Non è possibile che noi cristiani, mettendoci tutti nella stessa barca, viviamo questo tempo con atteggiamento meteorologico, cioè vediamo che tempo fa e speriamo che faccia bello, come se le cose accadessero come la meteorologia. Non possiamo permetterci questo, dovremmo averne vergogna, non c’è scritto da nessuna parte che il cristiano debba essere un imbecille. Deve decidere la sua vita sapendo quello che fa, non ignorando chi è e dove è. Questa ignoranza è una vergogna storica. La nostra testimonianza non si giustifica, cioè letteralmente non si rende giusta, per la buona lettura che è in grado di fare dei segni dei tempi ma si falsifica se non cerca di farlo, cioè di leggere i tempi. Non è che la nostra testimonianza diventa autentica perché riusciamo a fare un’opera culturale di lettura dei tempi, no, ma diventa falsa se cerca di scansare questa responsabilità. Questo deve esserci chiaro perché la Chiesa è paradossalmente in uno stato pietoso da questo punto di vista, come capacità di educazione. È evidente la situazione in cui siamo! Ed aprire la sensibilità sul mondo in cui viviamo non è compito degli intellettuali, lo sottolineo con forza. È un problema dell’adulto, soprattutto di chi fa una professione che non sia ramazzare la strada. Costui avrà il frutto della riflessione altrui, ma chi ha un minimo di professione ha il compito di sapere in quale mondo storico sia la sua professione, che posto occupi, che implicazioni morali e spirituali abbia. È un lavoro nel lavoro da fare, non è un’intuizione spontanea! Quando diciamo missione, diciamo un lato semplice della testimonianza, ma diciamo anche il lato complesso, quello di capire quale implicazioni abbia il luogo dove siamo civilmente, dove vada a finire la professione, che mondo serva e a quale mondo sia asservita. Il tema della professione, che stava molto a cuore a Padre Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, è stato completamente abbandonato, non si è capito che, se la coscienza cristiana non passa di lì, non passa da nessuna parte o, al massimo, passa solo tra amici e parenti nel tempo libero. C’è una passività totale in questo, dopodiché è inutile predicare contro il dualismo, per il quale la professione e il suo successo sono una cosa, poi c’è la fede che si occupa del tempo libero. Così si diventa cani muti come dice Geremia, che rimprovera Israele. La legge per cui ci si è mobilitati è una legge infame, ma se non era per l’iniziativa di pochi sarebbe passato tutto nel silenzio. Ora la questione che sta sotto è enorme: l’immagine uomo-donna è un’immagine biblica fondamentale perché è l’immagine di Dio (Genesi 1). Significa che tale immagine non sta nell’uomo singolo ma nell’uomo relazionato alla sua donna. Ora questa immagine, che viene distrutta, è la categoria fondamentale per capire Dio. Su questo sta avvenendo uno scontro che riguarda la cultura mondiale, perché su questo si deciderà come sarà l’uomo del XXI secolo. E noi non l’abbiamo ancora capito, non ci rendiamo conto che la famiglia è il luogo dello scontro perché mette in gioco la questione dell’uomo. Fino a 30 anni fa lo sconto era un altro, adesso il gioco del potere è cambiato e noi stiamo tranquilli, al massimo ce ne andiamo a sentire una predica in chiesa, magari fatta male.

<strong>2° Intervento di Giuseppe Zola</strong>
 

Come ho detto all’inizio, la nostra intenzione è quella di dare una mano per costruire una base culturale affinché il popolo che si è mobilitato possa giudicare. Le due relazioni di stasera ci hanno fatto capire il contesto più generale in cui ci siamo mossi a Roma: c’è un potere sconosciuto che impregna i nostri pensieri in modo tentacolare, anche se la famiglia è il punto più importante di attacco. Stasera siamo stati fedeli al compito, apriamo adesso ad alcune domande di approfondimento o di chiarimento.

<strong>Intervento di Alberto Contri</strong>
 

Concordo su tutto, c’è un 1% su cui non concordo con quanto detto. Io sono andato a Roma su invito dei Nonni 2.0 e sono rimasto colpito dalle quantità di persone, e noto che anche Grillo si è reso conto che c’è un popolo che non si allinea. Non sono però d’accordo sul giudizio circa Internet: è vero che è usato male, però io mi sono esposto, per l’incarico pubblico che ho, con vari annunci e mettendo in rete testi significativi (quello della Scabini o di Galli della Loggia), ho sentito varie polemiche ma ho anche favorito una riflessione e ho avuto anche dei riscontri positivi, non buttiamo dunque via insieme acqua e bambino.
Altro intervento
Anch’io penso sia positivo l’uso di Internet. Circa l’appunto fatto da Botturi alla Chiesa sull’evento di Roma forse era opportuno non appoggiarlo ufficialmente per evitare l’obiezione di un intervento della Chiesa in campo non suo.

<strong>Intervento di Giovanna Rossi</strong>
 

Sono una sociologa, studiosa della famiglia. Ero al Family Day con figli e nipoti, quindi con le mie generazioni… questo è stato importante, un motivo forte per andare è stato quello della presenza della mia famiglia. È importante che le giovani generazioni della mia famiglia capiscano le buone ragioni per fare una famiglia, la trasmissione tra le generazioni è fondamentale e la cultura contemporanea evade questo perché vive totalmente immersa nel presente. Altra osservazione, le colleghe di una università di Vilnius, a proposito delle unioni civili, hanno detto che loro non hanno problema, perché hanno tanti bambini negli orfanotrofi. Questo mi ha fatto riflettere, perché noi siamo in una situazione che non dà ragioni di quello che chiede. Un’altra osservazione: una collega dell’Università americana Giovanni Paolo II mi ha detto che noi siamo molto ignoranti e non ci rendiamo conto di cosa voglia dire una maternità surrogata, praticata abitualmente, in cui c’è un esagerato giro di denaro; ho pensato che c’è un grosso lavoro culturale che dobbiamo fare per dare un contributo. Ultima osservazione: dobbiamo essere grati al professor Gandolfini che ci ha dato una grande testimonianza, perché è stato il leader di un’operazione che non saremmo stati in grado altrimenti di fare. Infine una domanda: come andiamo avanti?
Altro intervento
Ho due domande da fare: la prima è che vorrei capire bene il passaggio dalla fede in Cristo all’atteggiamento del compiacere al mondo, vorrei capire come e perché scatta esattamente questo passaggio. La seconda: la testimonianza a livello della difesa dell’uomo viene vista come secondaria, come se Cristo non c’entrasse più di tanto. Ma è vero questo?

<strong>2° Intervento di Rodolfo Casadei</strong>
 

Accenno una risposta sulla questione informatica: i supporti informatici sono importanti, lo so bene in quanto giornalista, ma sottolineo fortemente gli svantaggi a livello culturale e antropologico; essi, a mio parere, sono superiori ai vantaggi. Per due motivi: il primo è che dietro ai social media ci sono grandi potenze economiche che hanno in agenda un programma da realizzare e se andate ad analizzare i loro pedigree ideologici ci trovate tutte le battaglie e le forme di pressione che conosciamo. In secondo luogo questi strumenti non svolgono uno scambio di idee, ma in realtà il 90% di quello che passano sono reazioni emotive, pure reattività. È un discorso che vale per noi tutti, è una emozionalizzazione della comunicazione. Lo scrittore coreano di cui vi ho parlato osserva che la rapidità dell’informazione realizza l’emotività dell’informazione perché la razionalità è più lenta dell’emotività, infatti la razionalità è senza velocità, e questo impulso acceleratore conduce alla dilatazione delle emozioni. Qualche mese fa ho visto John Waters, scrittore e giornalista irlandese, uno dei leader che ha cercato di opporsi al matrimonio gay in Irlanda. Lui usa tutti gli strumenti informatici e dice che quando è arrivato internet ha pensato, come tutti, che era arrivato il paradiso in terra perché si potevano scambiare messaggi con tutto il mondo, ma Internet si è trasformato in un grosso manganello che si abbatte sulle persone. Se cercate John Waters su Google, vieni fuori John Waters omofobo-contro i gay perché questo è il grande meccanismo dei motori di ricerca. Sulla questione del come si passi dalla testimonianza alla paura dell’altro, al cercare di compiacerlo, credo che il fattore originante sia una crisi dell’esperienza della paternità. Quella della paternità è ancora un’esperienza importante fuori dall’Occidente dove gli uomini sono meno fragili, non più buoni, ma meno fragili. Invece noi abbiamo cominciato a uccidere il padre 200 anni fa, forse ancora prima con Lutero, poi con l’Illuminismo, l’industrializzazione e l’ideologia totalitaria. Un altro fenomeno collegato è che quando muore il proprio padre, e i padri non possono durare per sempre, tendiamo a sostituirlo meccanicamente perché non accettiamo di vivere il lutto della perdita del padre. Ma diventiamo adulti solo se abbiamo un padre e se rielaboriamo il lutto della perdita del padre. Per l’altra questione, se è veramente testimonianza cristiana chiedere giustizia, io ho detto facciamo appello ai cristiani e non cristiani: se viene uno per uccidere, è vero che posso cercare di capire chi è e perché lo fa, ma anzitutto devo fare in modo che non mi uccida e questo vale per cristiani e non cristiani! Questo è quello che è scritto nella coscienza di ogni uomo, se siamo cristiani siamo chiamati a riconoscere meglio questa cosa, ad andarci a fondo, a rischiare per essa, ma la giustizia è compito di ogni uomo, cristiano e non.

<strong>Intervento di Francesco Botturi</strong>
 

A proposito del non avvallo ecclesiastico al Family Day, non intendevo un avvallo pubblico, non è compito della Chiesa. Il problema è che la Chiesa ha il compito di educare a fornire tutti i mezzi possibili affinché i figli facciano il loro dovere per far fronte alle situazioni storiche che devono affrontare. Il mio accenno era per dire che ho notato la non gradita sorpresa della gerarchia, ho notato che il fatto non veniva accolto, che il richiamo proveniente dall’evento del Family Day è stato qualcosa fuori dai costumi. Il problema è se ha senso che i cristiani lavorino con altri, si muovano con altri per ottenere, per creare un legame sociale. Se ha senso che essi siano fattori di legami sociali. Ora il sentire fastidio che ci sia un aggregazione sociale vuol dire, secondo me, essere fuori dal mondo, meglio, essere conformi al mondo che vuole individui separati e non aggregati in una vera socialità. Oggi l’Europa è completamente svuotata di questa socialità e ciò è pericolosissimo, dato che ci sono quei poteri potenti di cui si diceva. Ed è disumano, perché non crea quei grandi tessuti in cui l’uomo trova se stesso. C’è un forte legame tra questo e la non stima della famiglia, perché la famiglia è una società, ha la struttura della società. Tutto questo è avvertito come un dissenso e questo è patologico, infatti i disagi psichici e sociali sono all’ordine del giorno. E chi si può trovare bene in una società del genere? Solo gente un po’ pervertita che non ha il gusto dello stare insieme. La situazione è che non c’è nulla da vivere e produrre insieme, non c’è un significato comune, c’è una tensione negativa rispetto a questo, che mi colpisce moltissimo. A proposito della questione se la testimonianza in difesa dell’uomo sia meno importante della testimonianza di Cristo, rispondo con il Vangelo di Giovanni: se non ami il fratello che vedi come puoi pensare Dio che non vedi?

<strong>3° Intervento di Giuseppe Zola</strong>
 

Sulla domanda circa come andiamo avanti, riprendo l’annotazione della professoressa Rossi che ha detto “a Roma non ero sola”. Rimaniamo insieme, è la prima risposta alla devastazione che pervade il clima culturale, purtroppo anche in casa cattolica. Cerchiamo di essere, insieme, una presenza capace di giudicare con carità ma di giudicare! Capace di comunicare con chi vuole, senza vergogna, la verità e le evidenze che noi viviamo e vediamo. Il fatto che, senza nessun cammellaggio, a Roma si è creata una unità è importante. È importante che le associazioni che hanno aiutato questo movimento a comporsi vadano avanti con intelligenza, approfondendo sempre di più le ragioni del proseguire. Non bastano gli slogan, occorre andare al fondo delle questioni fondamentali per cui vale la pena fare sacrifici, andare a Roma e spendere soldi e tempo per vederci tra di noi. Poi occorre stare attaccati a quei punti che si propongono come riferimento come quello di questa sera. Ringraziamo questo lavoro culturale che può essere un punto di riferimento. Parlando con padre Marco si valutava la possibilità di creare anche altri strumenti per continuare la nostra attività. Questa serata potrà essere rivista, perché registrata, sul sito del centro culturale Rosetum. C’è poi lo strumento corsaro di Tempi che ci aiuta a non stare mai tranquilli, ma anche altri giornali ci possono aiutare a tenere desta la nostra attenzione. Vi suggerirei infine di leggere il documento steso tra il Papa e il Patriarca ortodosso perché contiene punti comuni di lavoro per noi. Ci salutiamo con l’augurio di un buon lavoro che prosegua la strada che abbiamo aperto. Diamoci suggerimenti, scambiamoci idee perché quello che si è iniziato non abbia a finire.

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