Giuseppe Mari

TEORIE DEL GENDER ED EDUCAZIONE

Gender
Giuseppe Mari

Ordinario di Pedagogia generale, Università Cattolica del Sacro

Studia Bioethica 2015 N° 3

Negli ultimi tempi si sta facendo ricorrente il riferimento al “gender”, di cui frequentemente si tocca il tema dell’influsso in ambito educativo. Questo intervento, dopo aver messo a fuoco – seppur brevemente – di che cosa si tratta, intende focalizzare l’attenzione sulla sfida educativa implicata nel fenomeno, con particolare riferimento alla scuola (1).

 

Le teorie del Gender : identità comune, presupposti di fondo e riscontro critico

Sotto il riferimento al gender si raccolgono orientamenti culturali anche sensibilmente diversi che però hanno un elemento di fondo in comune: l’affermazione che il significato della sessualità umana – per quanto concerne la sua interpretazione simbolica – è totalmente riconducibile a pratiche socioculturali correlate a convenzioni e consuetudini, quindi del tutto discutibili. la motivazione che guida ad abbracciare questa prospettiva è rimuovere qualunque elemento che possa implicare discriminazione tra uomo e donna: evidentemente, se tutto si gioca attorno a delle convenzioni, queste possono essere rimesse in discussione, rinegoziate e radicalmente cambiate. Questa meta è raggiunta distinguendo tra “Sex” e “gender”: la prima espressione allude alla descrizione corrispondente all’identità anatomofisiologica relativa a maschio e femmina, la seconda al significato simbolico a cui allude la differenza di genere. Solo la prima identificazione risulta comune, in quanto la seconda sarebbe – come dicevo in precedenza – del tutto arbitraria.

Non stupisce che al “gender” così delineato corrisponda l’adozione di un linguaggio “politically correct” (politicamente corretto) contrassegnato dalla cancellazione della differenza tra maschile e femminile attraverso l’adozione di una presunta neutralità, come – per esempio – è accaduto in italia introducendo le espressioni “genitore 1” e “genitore 2” al posto di “Padre” e “madre”. Anche in questo caso lo scopo è raggiunto perché l’“indifferenza” rispetto ai profili sessuati impedisce la discriminazione, ma emerge un chiaro problema antropologico: se l’essere umano è strutturalmente relazionale (come la tradizione culturale occidentale afferma da oltre venticinque secoli), vuol dire che implica il riconoscimento della “differenza” intesa come “alterità”; se però viene adottato un linguaggio “indifferente” (cioè indifferenziato), come può ancora esserci il riconoscimento della differenza richiesto dall’esistenza dell’intrinseca relazionalità umana?

È questo, in effetti, il cuore del problema. Si parte dall’aspirazione a rimuovere qualunque discriminazione che faccia leva sull’“essere maschio” e sull’“essere femmina”, ma si adotta una strategia che – professando l’in- differenza tra i due profili (sul piano del loro significato antropologico) – nega proprio quello che si dice di voler affermare. Rimarco che in discussione è il piano antropologico, ossia quello della lettura simbolica collegata alla descrizione anatomofisiologica, perché il piano descrittivo è riconosciuto esprimere una conoscenza comune, ma si tratta – oc- corre sottolinearlo – di una conoscenza in- sufficiente sui piani etico e pedagogico.

Infatti, il criterio a essa correlato – quello della funzionalità – non permette di differenziare la sessualità umana da quella animale. A questo riguardo, si riproduce un’ambiguità già espressasi nella storia del pensiero pedagogico, quella che portava – circa due secoli fa – a riconoscere una presunta “neutralità” valoriale nel referto scientifico che, in realtà, si faceva latore di precisi orientamenti assiologici. com’è noto, fu uno dei punti attorno a cui si accese la polemica tra i neotomisti e i Positivisti: oggi si ripresenta anche se in maniera più “soft”.

Il limite dell’approccio “gender” non è solo questo, legato al riduzionismo descrittivsta della sessualità umana e all’elaborazione di un’interpretazione presunta neutrale: c’è un problema di fondo, collegato alla stessa distinzione tra Sex e Gender. Questa, infatti viene declinata in modo tale – già lo osservavo, che e il solo approccio “Sex” risulti affidabile sul piano orientativo, negando la possibilità di elaborare un’interpretazione – a livello di “gender” (ossia di genere) – capace di andare oltre il piano descrittivo, restituendo un approccio condivisibile in chiave valoriale.  Ma questo è radicalmente discutibile. Infatti, l’esistenza di letture simboliche – già in età arcaica –, inerenti alla sessualità umana, non spiegabili (per la loro arcaicità che impediva l’acculturazione su ampia scala), come l’acquisizione dall’esterno di convenzioni socioculturali (mi riferisco, in particolare, al mito delle origini che riconduce l’esistenza del mondo all’unione tra “Cielo Padre” e “Terra Madre”), pone di fronte necessariamente a due tipi di spiegazione: o ci troviamo di fronte all’incredibile casualità della medesima convenzione socioculturale espressasi in contesti diversi e non comunicanti, oppure quello che emerge è un costrutto antropologico originario, per questa ragione condiviso.

Nel caso di questa seconda spiegazione, è possibile riconoscere un significato a livello “gender” che non dipende da convenzioni socioculturali, ma – anzi – le precede; per questa ragione le può giudicare. Dal momento che l’arcaica semantizzazione dei profili maschile e femminile che ho evocato, li presenta essenzialmente come diversi ma compartecipi nel dare la vita, ne discende che – sul piano simbolico – esiste un significato originario dell’“essere maschio” e dell’“essere femmina” che permette di respingere qualunque discriminazione facente leva sul dimorfismo non negando la differenza, bensì riconoscendola fatta per la comunicazione e la condivisione. Come si può notare, raccolgo la motivazione avanzata dall’approccio “gender” (che, in realtà, è molto più antica, basti pensare al passo paolino di gal 3,28 dove l’affermazione che “non esiste né uomo né donna” precisamente allude alla rimozione di qualunque discriminazione che faccia leva sulla differenza sessuale) ma la svolgo in senso esattamente contrario ossia nella direzione della semantizzazione della differenza, non della sua negazione. Ritengo che questo approccio sia essenziale in ordine alla sfida educativa implicata nel gender.

Gender e educazione

Non si può sottovalutare l’implicazione tra teorie del gender ed educazione, per più di una ragione. Anzitutto, occorre tenere presente che l’umanità si è sempre interrogata sul significato dell’essere maschio e dell’essere femmina, come prima ho richiamato in riferimento al mito delle origini a cui mi sono rifatto. In proposito, occorre considerare che alla domanda relativa al genere è sempre stata collegata una risposta che si è regolarmente espressa anche in forma educativa. in altre parole, nessuna civiltà ha mai trascurato l’esigenza di introdurre i suoi membri più giovani nella prospettiva di diventare – da bambini e bambine – uomini e donne. Ovviamente, questa prassi ha anche comportato forme improprie, discutibili, in casi specifici da respingere. Questo si è espresso ogni volta che gli stereotipi messi in campo per guidare la pratica educativa hanno orientato verso modalità discriminanti, generalmente a danno della donna. Ma questo non significa che ogni stereotipo vada demolito. Non bisogna dimenticare, infatti, che lo stereotipo risponde anche a una (indispensabile) logica identificativa, implicante – come sempre accade – una semplificazione, che tuttavia non è necessariamente negativa. Se questo si verifica, lo stereotipo va corretto, ma, se la schematizzazione da esso veicolata non lede la dignità della persona, limitandosi a divulgare cliché innocui, lo stereotipo va riconosciuto nel ruolo che esprime all’interno della comunicazione umana. La stessa aspirazione a decostruire gli stereotipi è apprezzabile solo se, contemporaneamente, li ricostruisce in forma tale da non implicare discriminazione, altrimenti l’unico effetto che si raggiunge è confondere coloro che stanno facendo la fatica di diventare adulti. Faccio un esempio. Mostrare che è convenzionale distinguere tra abiti maschili e abiti femminili, ha una sua validità informativa e critica, ma non fino al punto di far vestire i maschi da femmine e le femmine da maschi perché questo ha il solo effetto di disorientare chi – per crescere – ha bisogno di identificarsi in modelli precisi.

La questione educativa è rilevante anche per altre ragioni, non ultima questa: mostra l’intrinseco limite dell’approccio Gender. Quest’ultimo, infatti, professa l’inesistenza di alcun significato antropologico originario, essendo ogni volta ri(con)dotto a convenzioni socio-culturali. dal punto di vista pedagogico, la questione è d’importanza decisiva. Educare, infatti, significa sempre (e inevitabilmente) agire in chiave prospettica, perché, implicando l’educazione un nesso costitutivo con la libertà, essa è collegata al fatto che – essendo libero – l’essere umano è chiamato a orientarsi in una direzione che lo allontana dalla condizione fattuale presente. Questo concretamente significa che educare un bambino comporta riconoscere – ipoteticamente, ma realmente – l’uomo che può diventare, mentre educare una bambina significa riconoscere la donna che può diventare.

Nel momento in cui l’approccio Gender riconduce ogni significato antropologico dei profili sessuali a pura convenzione, respinge che se ne possa riconoscere uno originario, per questa ragione comune a tutti. il risultato è che, se ci si discosta dal puro e semplice approccio descrittivo, si finisce per agire arbitrariamente.

il problema, però, è tutt’altro che risolto. Infatti, “educare” in chiave funzionale significa respingere qualunque orientamento etico che non coincida con la pura e semplice pratica “fisiologica” della sessualità. Nel concreto, questo vuol dire abbracciare un’indifferenza tra i comportamenti sessuali – ovviamente quelli inclusi nella legalità – che – di fatto – educa alla bisessualità, elevando un comportamento statisticamente limitato a paradigma della sessualità comune. Si coglie immediatamente l’incoerenza logica di questa impostazione, rispetto alla quale il “politicamente corretto” opera come fattore di omologazione rispetto a una “neutralità” che è solo presunta. Occorre avere presente questa dinamica che smaschera la presunta neutralità dell’approccio Gender, mostrando come concretamente orienti a sua volta, ma secondo una modalità discutibile. La stessa lotta all’omofobia va condivisa, in quanto ogni istigazione alla violenza e ogni comportamento a essa correlato non devono trovare mai accoglienza, in questo ambito come in ogni altro. ma la lotta all’omofobia non può diventare il cavallo di troia che divulga l’indifferenza tra i comportamenti sessuali, negando il fatto obiettivo che ci sono differenze specifiche, le quali sono soggette – come ogni comportamento – a una valutazione anche critica in nome della libertà di pensiero.

Scuola e Gender

Un contesto nel quale questa avvertenza deve essere particolarmente tenuta presente è la scuola. Anzitutto perché – come sancisce la costituzione – sono i genitori a detenere la prima e piena titolarità relativamente all’educazione dei figli, quindi la scuola – agendo in forma sussidiaria – non può adottare orientamenti che non siano condivisi dalla famiglia. Questo vale tanto più nel caso dell’approccioGender perché è sottoposto a discussione anche   nel   contesto   scientifico   e culturale, quindi – non rappresentando una interpretazione largamente condivisa (nell’opinione pubblica) e solidamente confermata (in campo scientifico) – esula rispetto a ciò che è di competenza della scuola. Non dimentichiamo, infatti, che questa istituzione si fa interprete di orientamenti comuni sui piani sia civile (altrimenti che senso avrebbe il riconoscimento della normatività della costituzione in ordine all’azione scolastica?) sia scientifico: nel caso della prospettiva Gender, l’approccio è quanto meno controverso. D’altro canto, che la questione sia tutt’altro che pacifica lo dimostra il fatto che i libretti Educare alla diversità, prodotti dall’istituto Beck e divulgati dall’UNAR, inizialmente destinati alla scuola per promuovere una campagna antidiscriminazione, non sono stati divulgati dal ministero. Significa che il quadro non è ancora chiaro e che occorre prudenza prima di adottare, come assodati, approcci che – in realtà – sono ancora da verificare. Come può muoversi quindi la scuola? Poste le premesse precedentemente richiamate, credo che una modalità da segnalare sia quella di agire nel segno della personalizzazione di genere, ossia operando affinché sia messa a fuoco l’originalità sia maschile sia femminile in ordine al comportamento e all’apprendimento di ragazzi e ragazze. Personalmente, l’ho fatto oggetto di attenzione, ricavandone la convinzione che si tratta di una risposta adeguata alla sfida di promuovere la coscienza dell’identità di genere nel quadro del riconoscimento della comune dignità di maschi e femmine (2). Del resto, non sono pochi gli studi che, anche in Italia, stanno affrontando la questione che merita attenzione perché, facendo leva sulla categoria di persona, assume un riferimento transideologico e che ha trovato, negli ultimi decenni, ampio riconoscimento nei documenti riguardanti la scuola (3). L’educazione è materia delicata e richiede un approccio prudente. Gli orientamenti costituzionali, che guidano la scuola come istituzione “comune”, sono sufficienti per respingere le due tendenze – eguali e contrarie – che insidiano il tema dell’identità di genere: da una parte, la negazione del problema; dall’altra, che sia affrontato in termini ideologici. Il riconoscimento della differenza, favorito dalla semantizzazione dei profili maschile e femminile, praticato ponendo come  inderogabile  il  riconoscimento  dell’identica dignità di uomo e donna, insieme all’esclusione di qualunque discriminazione e violenza a danno di chicchessia per come pratica la sessualità, nel quadro della legalità condivisa, è più che sufficiente per praticare l’educazione affettiva e sessuale evitando di aderire a prospettive parziali e discutibili.

Note

1 Per un’introduzione generale al tema, cfr. M.A. Peeters, Il Gender, San Paolo, Milano 2014, e la bibliografia ivi richiamata. Una monografia attenta alle ricadute pedagogiche si trova in Studia Patavina,1 (2015), 15-120. Rimando anche al mio testo «gender e sfida educativa», in Rivista Lasalliana, 3 (2014), 389-398.

2 cfr. G. Mari (a cura di), Comportamento e apprendimento di maschi e femmine a scuola, Vita e Pensiero, Milano 2012.

3  cfr. G. Zanniello (a cura di), Maschi e femmine a scuola, SEI, Torino 2007; A. La Marca (a cura di), La valorizzazione delle specificitàfemminili e maschili. Una didat- tica differenziata per le alunne e per gli alunni, Armando, Roma 2008.