commissione giustizia del senato

DOCUMENTO PRESENTATO DALLA NOSTRA ASSOCIAZIONE ALLA COMMISSIONE GIUSTIZIA

Presenza pubblica

AUDIZIONE PARLAMENTARE RELATIVA AL PROGETTO DI LEGGE

“Modifiche agli artt. 604 bis e 604 ter del codice penale, in materia di contrasto della omofobia e della transfobia.”

prof. PAOLO DE CARLI ord. Univ. di Milano a r.

1) Reati di odio ed esercizio odierno della libertà di pensiero

L’incremento in Europa riguardante la previsione di reati cd. di odio, hate crimes, intende certamente perseguire un affinamento del diritto penale nella direzione di una più ampia tutela della persona umana.

Il problema di nuove disposizioni in questo senso va tuttavia considerato nell’ambito del diverso contesto sociale che caratterizza il mondo d’oggi, soprattutto per il diverso significato che assume oggi l’espressione umana in rapporto alla sua risonanza e diffusività, e quindi alla sua rilevanza sociale e pubblica. Oggi nel campo della comunicazione a prevalere e a dettare il clima sociale non sono più i comizi o gli incontri in luogo pubblico o aperto al pubblico, non sono più neppure le pubblicazioni a stampa ma sono i mezzi, come i social networks e la televisione, che si caratterizzano per quantità di immagini e per un linguaggio istintuale ed emozionale di tipo spot che tende cioè a suscitare in sequenza forti impressioni di breve durata. Si riducono quindi drasticamente i tempi e i momenti preparatori precedenti l’espressione esterna e cioè si riduce la riflessione personale e sociale che sta prima della manifestazione pubblica.

Questa osservazione di contesto spiega l’interesse della “Associazione Nonni2.0” per il tema in oggetto. Nel mondo attuale i nonni e gli anziani in generale rappresentano la categoria in cui il tempo della riflessione precedente all’espressione si è mantenuto più esteso e ciò naturalmente, sia per la loro formazione antecedente l’epoca del web, sia per naturale propensione dell’età avanzata. L’Associazione è quindi impegnata ad evitare i guasti che possono conseguire a reazioni solamente istintive e a un pensiero non riflesso.

Ora occorre rilevare che il tipo di comunicazione proprio all’odierna società moltiplica la diffusione di sentimenti non riflessi, quindi di sentimenti istintivi che possono essere di ammirazione ma anche e, probabilmente più spesso, di repulsione e di odio. Guardando la situazione dall’altra parte, cioè dalla parte di chi ha il compito di mantenere l’ordine, cioè dalla parte del potere, si deve notare che il potere, inteso nel senso più ampio, ha fatto uso degli stessi mezzi spot e immaginifici constatando che potevano essere efficacemente impiegati ad un uso di ordine. Ecco perchè i detentori del potere politico/economico/culturale hanno teso a impadronirsi della comunicazione radio-televisiva e dei suoi strumenti e ad usare i social come strumenti di ordine e di formazione del consenso col grave pericolo di arrivare ad una conformazione delle persone e del loro pensiero. Si pensi a questo proposito, ma è solo un esempio, ai twitt di Trump e in genere a tutte le comunicazioni radiotelevisive e sui social effettuate oggi dai politici. E’ chiaro che tutto questo (cioè il pensiero non riflesso e la sua diffusione) gioca negativamente sull’esercizio della libertà di pensiero e quindi occorre vegliare molto più di prima sulla preservazione di tale libertà.

In secondo luogo viene progressivamente meno la distinzione fra pensiero espresso privatamente e pensiero espresso pubblicamente. Certamente la tutela costituzionale dell’art. 21 Cost. riguarda entrambe le fattispecie ma indubbiamente l’interesse sociale prevalente è quello dell’ambito pubblico. E’ nell’ambito della diffusione pubblica che va tutelata la possibilità del pluralismo e quindi la libertà di ogni voce diversa. Se in passato era chiaro che tale prevalente interesse aveva riguardo al pensiero espresso pubblicamente attraverso lo strumento verbale in luoghi pubblici o aperti al pubblico oppure attraverso la stampa, la radio o la televisione oggi la predominanza della comunicazione web sui social apre la pubblicità della comunicazione ad una quantità sterminata di comunicatori i quali assumono importanza in rapporto al numero dei loro followers e alla potenza e ricchezza del loro sito comunicativo.  A questo proposito appare interessante citare un esempio giurisprudenziale ossia il recentissimo procedimento che ha dato luogo alla sentenza della CEDU del 14/1/2020 N. 11 nel quale lo spazio su un social network è stato considerato come spazio pubblico in cui valutare se debba prevalere la tutela contro l’offensività di certe espressioni o se debba prevalere la tutela della libertà di pensiero in contrapposto a tale offensività.

Ora poiché manca ogni disciplina dei social e del web, in generale, che ne garantisca pluralismo e correttezza di comunicazione, cioè una disciplina che, per lo meno, all’interno delle comunicazioni web, configuri un servizio pubblico democratico, si profila il grave rischio di un utilizzo strumentale dei siti più potenti cioè di quelli controllati dai poteri politici, economici e culturali che darebbe luogo ad un appiattimento delle espressioni di pensiero attorno agli interessi di questi.

2) Reati di odio e discriminazione per motivi di orientamento sessuale

Come abbiamo osservato la tutela penale del cittadino attraverso la configurazione di nuove fattispecie di reato basate sull’elemento dell’odio ideologico può essere un elemento positivo rispetto alla preoccupazione che la libertà si mantenga nei limiti che la Costituzione le assegna e non scada in licenza. D’altro canto va considerato, in questa sede de iure condendo, che la diffusione tramite i potentati del web di stereotipi e modelli di pensiero ha un grande impatto sulle stesse istituzioni della giustizia e può condizionare ed intimidire gli stessi giudici e operatori di giustizia, spingendoli ad un uso scorretto ed estensivo delle norme di odio specie quando il confine tra odio ed espressione del pensiero diventa sottile e impercettibile e si rischia di colpire e mortificare la libertà dei cittadini.

I reati di odio (hate crimes) trovano la loro origine nella tutela dell’eguaglianza e mirano di conseguenza ad evitarne la inosservanza attraverso fatti di discriminazione. Storicamente la prima discriminazione che ha mosso gli Stati a una normativa apposita à stata la discriminazione di razza con la Convenzione internazionale di New York del 7 marzo 1966 ratificata dall’Italia con la legge 13 ottobre 1975 n.654 poi modificata dal D.L. 26 aprile 1993 n.122 convertito nella L. 25 giugno 1993 n. 205 (cd. “legge Mancino”)  che ha introdotto anche la previsione delle discriminazioni per motivi “nazionali o religiosi”. Con il D.Lgs. 1 marzo 2018 n.21 sono state introdotte nel codice penale agli artt. 604 bis e ter le corrispondenti previsioni creando la Sezione 1 bis del Capo III “Dei delitti contro l’eguaglianza”. Ora il progetto di legge Scalfarotto intende estendere la previsione di detti articoli ai “motivi fondati sulla omofobia o sulla transfobia”. Tuttavia nel PDL Scalfarotto le ipotesi di reato basate su motivi “fondati sulla omofobia o sulla transfobia” non vengono estese ai casi di “propaganda di idee”. I reati di odio sono dunque unificati in un’unica categoria dal motivo che li cagiona, l’odio ideologico appunto, e si esplicitano in una attività di istigazione o di commissione di fatti di discriminazione.

3) Atti di discriminazione e necessità di normative differenziate

Nell’affronto comune del problema delle discriminazioni in ordine all’orientamento sessuale si dà per scontata una parificazione doverosa fra tutti i possibili sessi, che, nella loro varietà.secondo gli scritti LGBT, appaiono quasi indeterminati e indeterminabili. Questo però in molti casi trascura o addirittura contrasta con il criterio per cui è errato parificare stati e situazioni diversificati nella realtà, ed è ancora da dimostrare che molte differenze reali che si basano sulla anatomia, fisiologia e psicologia degli esseri umani possano essere superate per arrivare ad una parificazione di trattamento generalizzata. Ma anche se dovessimo assumere il criterio di una obbligatoria e generalizzata parificazione è evidente che tale criterio non può applicarsi meccanicamente in tutti i campi senza una disciplina di dettaglio e che sarebbe ingiusto penalizzare dei comportamenti bollandoli come discriminatori quando essi dovessero semplicemente essere considerati come necessariamente discendenti dalla declinazione del criterio della parità nei diversi campi.

A questo punto veniamo a considerare più da vicino e direttamente l’oggetto specifico del PDL cioè gli “atti di discriminazione per motivi fondati sulla omofobia o sulla transfobia”. Il concetto è molto generale e vago, suppone una possibile parificazione generalizzata e si oppone ad ogni distinzione di trattamento aprendo il varco ad una indiscriminata sanzionabilità penale. Certamente la condizione di persona omosessuale o transessuale ha ricevuto poca attenzione nella legislazione ordinaria specialmente in quei campi e in quei casi in cui una totale parificazione può creare problemi alla persona stessa o agli altri. E’ evidente che spetta alla legislazione ordinaria e alla normativa amministrativa di provvedere ai casi concreti in cui possano rilevare difficoltà a una totale parificazione di trattamento.

A questo proposito si possono ricordare tutti i casi in cui particolari agevolazioni o particolari trattamenti si colleghino a caratteristiche sessuali maschili o femminili o quando a tali diversificate caratteristiche siano legate forme di convivenza o forme di organizzazione sociale. Ancora è implicata la disciplina di alcuni fra i principali servizi sociali come quella dei servizi sanitari, assistenziali o semplicemente dei servizi igienici. E non si può dimenticare l’istruzione pubblica ove si riflettono diritti fondamentali come quello di manifestazione del pensiero collegato con la funzione educativa; e si pensi, in questo ambito, alla delicatezza del distinguere fra aspetti patologici e fisiologici delle distinzioni di genere. Ma per passare a campi del tutto diversi anche la politica e i diritti politici parrebbero interessati a che sia posta una disciplina. Si pensi all’attuale normativa delle quote rosa nei procedimenti elettorali o per la nomina degli organi amministrativi e di controllo negli enti pubblici o nelle società controllate da pubbliche amministrazioni con il problema di una revisione delle quote di partecipazione in base all’appartenenza sessuale. E questo vale allo stesso modo nel campo della finanza per gli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. Si pensi anche a situazioni derivanti da particolari attività o da particolari ambienti sociali come ad esempio la situazione delle forze armate o di sicurezza interna o la situazione carceraria o della organizzazione delle carceri. Si pensi ancora, senza volere esaurire la possibile casistica, al regime di collocamento obbligatorio nel campo del lavoro.

Si deve ricordare che in modo diverso si è proceduto in passato per gli hate crimes razziali ed etnici o anche per quelli per motivi nazionali o religiosi che vennero previsti quando una legislazione e una normativa estesa avevano già affrontato i problemi particolari sollevati dalla equiparazione di trattamento nei casi concreti.

E che si debba procedere allo stesso modo nei casi in oggetto è soprattutto richiesto dal rispetto della norma costituzionale interna dell’art. 3 Cost. che è primariamente rivolta al legislatore perché la applichi disciplinando in modo diverso situazioni diversificate e così quando la natura delle situazioni di fatto non implica immediatamente una parificazione disciplinare oppure implica una disciplina differenziata che altrimenti verrebbe in questi casi forzatamente e in modo improprio, indiscriminato e rudimentale operata dal giudice.

4) La normativa del PDL non è richiesta dalle attuali normative comunitarie

Si deve aggiungere che la modifica della disciplina penalistica come configurata nel PDL non è neppure richiesta dalle norme comunitarie, innanzitutto perché la statuizione di norme penali e la configurazione di nuovi reati non rientra nella competenza comunitaria e in secondo luogo perché nella normativa UE, hard o soft che sia, non si rinviene neanche un semplice invito al legislatore italiano a provvedere in tal senso.

A proposito dell’art. 21 della Carta dei diritti di Nizza, come chiariscono le spiegazioni annesse alla Carta, tale articolo “…non conferisce nessuna facoltà di emanare norme contro la discriminazione in questi settori di intervento degli Stati membri o nei rapporti fra privati né sancisce nessun divieto assoluto di discriminazione in settori così ampi. Essa infatti tratta soltanto delle discriminazioni ad opera delle istituzioni e degli organi dell’Unione stessi nell’esercizio delle competenze conferite ai sensi dei Trattati e ad opera degli Stati membri soltanto quando danno attuazione al diritto dell’Unione. Il Paragrafo 1 non altera quindi l’ampiezza delle facoltà conferite a norma dell’art. 19 [TFUE già art. 13 della Carta] né l’interpretazione data a tale articolo. Il paragrafo 2 corrisponde all’art. 18 primo comma del trattato sul funzionamento dell’Unione europea e va applicasto in conformità di tale articolo.” Certamente in base agli artt. 10 e 19 TFUE l’Unione (con una procedura aggravata) può “…prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni…” ma questo (art. 19 c.1) “…nell’ambito delle competenze…conferite dall’Unione”. Con la procedura ordinaria è ammesso che il Parlamento e il Consiglio possano adottare “…principi di base delle misure di incentivazione …destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri…”. Quindi la normativa comunitaria, lungi dall’invitare all’adozione di una normativa penalistica consente al massimo un’azione nell’ambito delle competenze di identificazione dei principi di eventuali misure di incentivazione. Si tratta di una azione evidentemente volta a sviluppare, in singoli campi di intervento, misure legislative e amministrative degli Stati membri volte a superare singoli problemi di discriminazione ponendo anche discipline particolari per casi differenziati.

Le menzionate Direttive peraltro non hanno riguardo all’aspetto specifico dell’orientamento sessuale. Malgrado le insistenti richieste infatti l’aspetto dell’orientamento sessuale non è mai stato oggetto diretto e specifico di una regolamentazione parificatoria e soltanto in alcune direttive, (come quella sul lavoro che riguarda “religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali”) si può rinvenire qualche tenue riferimento. Quando si riferiscono al sesso le direttive antidiscriminazione (come ad es. la Dir. 2004/113/CE) promuovono la parificazione fra uomini e donne senza avere riguardo a condizioni di genere diverse da quelle di maschio e femmina. 

Se si vuol trarre dalla normativa comunitaria un indirizzo generale in materia di non discriminazione questo è nel senso di un ribaltamento del problema sul piano legislativo e amministrativo nazionale. Le direttive in questione non sono  evidentemente autoapplicative nel diritto degli Stati ma implicano una complessa fase applicativa, non soltanto attraverso leggi nazionali che le traducano a livello interno, ma mediante provvedimenti amministrativi che a loro volta diano applicazione a valle, individuando le fattispecie di diversificazione per escluderle dalla disciplina di parificazione e dalle sue conseguenze e, in quanto necessario, per renderle oggetto di regolamentazione specifica. In tutte le direttive si prevedono i casi in cui gli Stati potranno escludere dalla parificazione situazioni particolari. Così ad esempio nel campo del lavoro (“occupazione e condizioni di lavoro” Dir. 2000/78/CE art. 4 Par. 1) si ammette che gli Stati possano prevedere differenze di trattamento fra uomini e donne quando “la natura di un’attività lavorativa o il contesto in cui essa viene espletata” implichi necessariamente caratteristiche particolari di svolgimento “purchè la finalità sia legittima e le caratteristiche siano proporzionate al fine”. Nel campo dell’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura (Dir. 2004/113/CE art. 4 Par. 5) sono consentite agli Stati discipline differenziate di trattamento se i “beni o servizi sono esclusivamente o principalmente destinati a persone di un solo sesso” e la fornitura “è giustificata da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il conseguimento di una tale finalità sono appropriati e necessari”.

In definitiva le Direttive non impongono, né potrebbero, a livello sanzionatorio a presidio delle norme sulla parità di trattamento l’adozione di normative penali: esse indicano piuttosto agli Stati l’adozione di strumenti amministrativi o di volontaria giurisdizione diretti a por fine alle discriminazioni, od anche disposizioni sul risarcimento dei danni causati. Anche le procedure previste o prefigurate sono normalmente al di fuori del processo penale.

5) Conclusioni

Ecco perché appare ultroneo ed eccessivo, allo stato attuale della legislazione, utilizzare uno strumento estremo come quello della legge penale in un campo, come quello dell’orientamento sessuale in cui non esistono posizioni stabilizzate nel campo medicoscientifico e in cui mancano discipline differenziate nei singoli campi che le richiedono.

In questa situazione l’uso della sanzione penale appare simile a quello di una clava quando sarebbe sufficiente un piccolo attrezzo e rischia di colpire semplici manifestazioni del pensiero considerandole come atti discriminatori e, quindi, reati. Se con riguardo al nuovo art. 604 bis del Codice penale dovesse passare un’interpretazione secondo la quale fra gli “atti discriminatori” sono da comprendersi anche atti scritti o verbali non contenenti né decisioni né prescrizioni obbliganti e neppure contenenti oltraggi o ingiurie, sarebbe così consentito colpire dei nuovi “reati di opinione” e verrebbe annullata la tutela della libertà di pensiero e in conseguenza la libertà di educazione. Segnali di questo genere sono già rintracciabili anche nella giurisprudenza della CEDU (ad esempio Sent. 9-2-2012 Veideland e altri c. Svezia). Sono i casi in cui l’utilizzo della Convenzione come normativa generale in mancanza di normative secondarie e amministrative permette alla Corte una spazio enorme di movimento che potremmo dire di tipo “creativo”, uno spazio ancora superiore a quello consentito alla Corte di giustizia UE.

Per riassumere gli assunti propri a questo documento e quindi le richieste della “Associazione Nonni 2.0”:

Le modalità attuali delle comunicazioni specialmente pubbliche aggravano i problemi della tutela della libertà di manifestazione del pensiero art. 21 Cost. e quindi implicano una maggior prudenza e vigilanza da parte del legislatore. Legiferare in materia di reati di odio ideologico comporta un livello di rischio molto alto per le possibili lesioni della libertà costituzionale di manifestazione del pensiero e della libertà di educazione, tanto che la previsione di reati di odio ha registrato un incremento in Europa ma non negli USA patria storica del pluralismo e della libertà di pensiero.

Occorre una declinazione normativa secondaria e amministrativa per disciplinare i casi numerosi che abbisognano di discipline differenziate altrimenti la norma penale rischia di colpire indiscriminatamente come una clava situazioni giustificate.

La normativa comunitaria non richiede assolutamente la previsione di nuovi reati penali quanto piuttosto l’emanazione di leggi e regole che nei singoli campi di impatto della parificazione provvedano a disciplinare le situazioni e i casi di giustificata differenziazione.

Poiché nel campo degli orientamenti sessuali questa normativa manca del tutto occorre prima aspettare che si formi per i singoli campi e comunque occorre una grande prudenza del legislatore.

Approvare ora il Progetto di legge procurerebbe più danni che effetti positivi costituendo un gravissimo vulnus per l’esercizio della libertà di pensiero e di educazione, per il mantenimento di un pluralismo sociale e quindi di una reale democrazia nel Paese