Senato della Repubblica

UN’ALTRA VOLTA L’ASSOCIAZIONE NONNI2.0 IN SENATO A FAR ASCOLTARE LA NOSTRA VOCE

Presenza pubblica

Il 14 giugno scorso, di fronte alla Commissione Igiene e Sanità del Senato è avvenuta l’audizione del prof. Paolo De Carli in rappresentanza della nostra Associazione per raccoglierne il parere  sul DDL sul “Fine Vita”.

La Commissione era presieduta dal Vicepresidente Sen. Maurizio Romani.

La Commissione ha ascoltato l’intervento del prof. De Carli durato circa venti minuti.

Il Presidente poi ha dato la parola per domande e osservazioni a chi lo desiderasse.

E’ intervenuta la Senatrice di Forza Italia Rizzotti che ha apprezzato quanto affermato dal prof. De Carli dichiarando di essere d’accordo e assicurando un impegno nella stessa direzione per la discussione in Aula.

AUDIZIONE AL SENATO del prof. PAOLO DE CARLI per la ASSOCIAZIONE NONNI2.0 sul PROGETTO DI LEGGE cd. sul FINE VITA

(12° Commissione Igiene e Sanità Presidente Sen. Emilia De Biasi)

Ho insegnato all’Università di Milano come professore ordinario e sono stato Notaio in Milano ora sono qui come nonno e portavoce della Associazione Nonni 2.0 con sede in Milano. E’ evidente l’interesse dei nonni al “Fine Vita” e mi pare anche che sia importante ascoltare la loro voce proprio perché è voce di chi è più prossimo e più sensibile al “Fine Vita”. L’Associazione è nata qualche anno fa ed è già diffusa nelle grandi città dell’Alta Italia. Dispone di un sito continuamente aggiornato con documenti, articoli e tutta l’attività associativa. E’ presente sui social networks. Fa parte della Federazione delle Associazioni Cattoliche Europee.

 

  1. Le criticità

E vengo a quanto ritiene l’Associazione rispetto al Progetto di legge sul “Fine Vita” N.2801.

L’Associazione rileva due rilevanti criticità del Progetto di legge.

La prima si riferisce all’oggetto in generale cui è rivolto il disegno di legge: disciplinare il cd. “Fine Vita”. E’ una straordinaria ambizione legislativa quella che intende disciplinare il momento finale della vita anche in mancanza di uno stato di consapevolezza del soggetto.

La seconda criticità riguarda la modalità formale con la quale il progetto si presenta, modalità che, come vedremo in seguito, denuncia una forte ambiguità espressiva e si direbbe, attraverso tale forma, un intento sottilmente decettivo.

  • Disciplinare il “Fine Vita”

A riguardo del primo aspetto (disciplinare il “Fine Vita”) si tratta di una legge che vuole entrare nel merito della disciplina della vita e che considera la vita umana non come un mistero la cui intelligenza va oltre la capacità di indagine dell’uomo (perlomeno dell’uomo allo stato delle sue conoscenze attuali) ma, esattamente all’opposto, considera la vita umana come un possesso di un bene disponibile e quindi come un diritto sul corpo, sul proprio corpo. In questo la legge è estremamente semplificatrice per esempio del concetto di sofferenza che è visto solo in termini negativi senza nessun possibile apprezzamento dei possibili valori positivi della sofferenza quali sono documentati nella storia del pensiero ove (ad es. Socrate, Platone, la tragedia greca o tutta la sequenza del pensiero religioso documentato per esempio nella Bibbia) l’approfondimento del senso della vita passa attraverso la sofferenza; la sofferenza nella vita è una condizione del cammino dell’uomo più che una contraddizione.

La prima criticità del progetto di legge è dunque di tipo antropologico  e che si riflette immediatamente in un difetto giuridico. Il difetto giuridico è quello di considerare, apoditticamente, un bene porre una disciplina in spazi lasciati vuoti dalla normativa perché di difficile valutazione, come, appunto,  le decisioni e le valutazioni sulla vita. Non è necessariamente un bene voler disciplinare nei particolari un campo considerato di rispetto per la sua particolare delicatezza. Tutto il progresso giuridico in questo campo è stato, nei secoli, quello di incrementare la tutela della vita umana mediante il suo rispetto perché la vita è stata intesa proprio come mistero non nella disponibilità di una valutazione e neppure nella disponibilità del legislatore. Si pensi alla tutela costituzionale, alla tutela penale: si è così arrivati a disporre nei paesi con maggiore tradizione giuridica e secondo un trend di sviluppo giuridico mondiale, che la vita umana non può essere attentata (neppure per motivi di giustizia: contrasto alla pena di morte e alle torture per motivi di giustizia) ma neppure può essere manipolata nella sua essenza, nel principio vitale, non può essere cioè replicata (clonazione) o artificialmente programmata (pratiche eugenetiche); si è arrivati a disporre che la vita anche nei disabili deve essere favorita (Convenzione ONU sui diritti dei disabili, legge italiana n. 18 del 2009). Questo trend costante nello sviluppo legislativo mondiale subisce una battuta d’arresto solo in tempi recenti con l’approvazione delle leggi sulla interruzione volontaria della gravidanza e ora con l’approvazione di leggi sulla disponibilità della propria vita. Con queste leggi si afferma per la prima volta il principio della disponibilità della vita umana contro il principio della sua indisponibilità.

E’ certo che la scienza ha fatto dei progressi e che il prolungamento della vita umana pone problemi riguardanti le cure di organismi ormai anziani. Si può capire l’interesse a una ulteriore disciplina anche giuridica. Questa tuttavia deve essere iscritta nella rinnovata consapevolezza della misteriosità della vita e della sua indisponibilità per quanto riguarda l’essenza, il principio vitale.

  • Le richieste di modifica del Progetto di legge

Occorre quindi modificare profondamente il progetto di legge in discussione. A questo proposito l’Associazione propone di riconsiderare la situazione del malato non come individuo isolato solo titolare di diritti e di decisioni in merito, ma come persona inserita nel contesto relazionale di una struttura di cura, di medici professionisti delle cure, di un ambito di rapporti familiari, amicali e sociali.

Cosa significa questo? Quali modifiche intende proporre l’Associazione?

  • Le modifiche riguardanti le DAT.

Significa innanzitutto che, in caso di incapacità del malato, le disposizioni anticipate di trattamento DAT, per i limiti intrinseci che inevitabilmente hanno (imprevedibilità del desiderio di vita del malato stesso, della sopportabilità della sofferenza, dello sviluppo delle cure e della loro efficacia, della considerazione della rilevanza per il malato degli affetti di familiari e persone vicine), non possono essere disposizioni obbliganti ma dichiarazioni di cui si debba tener conto in conformità alla Convenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa, che prescrive che delle intenzioni del malato espresse in precedenza si tenga conto ma che ugualmente vadano rispettate le norme e obbligazioni professionali mediche (artt. 4 e 7 della Convenzione di Oviedo del 4-4-1997 di cui alla legge italiana di ratifica 28-3-2001 n.145 non operante in quanto non depositata al Consiglio d’Europa).

Da questo punto di vista i casi previsti nel DDL (attuale art. 4 c. 5 del DDL 2801) nei quali il medico si può discostare dalle disposizioni del malato, appaiono assolutamente ristretti e vaghi, tali da rendere assai opinabile la loro dimostrazione in sede di contenzioso e quindi tali da far propendere il medico stesso per un comportamento indenne da responsabilità e quindi ossequiente anche a disposizioni incongrue. Stesse considerazioni valgono per l’ipotesi programmatoria e organizzativa prevista all’art. 5 del Progetto “Pianificazione condivisa delle cure” che ha effetti obbligatori per il medico e l’équipe sanitaria e per la quale neppure sono previsti i casi di scostamento di cui all’art. 4 c. 5.

1.2.2. Il rilievo della valutazione discrezionale del medico

In secondo luogo occorre ampliare sensibilmente la rilevanza della valutazione discrezionale del medico. La valutazione del medico costituisce il presupposto tecnico di ogni altra considerazione e valutazione.

Il medico è in grado di distinguere fra:

1) l’accanimento terapeutico,

b) la necessità o opportunità di una terapia del dolore,

c) gli effetti eutanasici della omissione di interventi e cure,

d) gli effetti eutanasici della sedazione profonda,

e) gli effetti eutanasici della somministrazione di particolari farmaci,

f) gli effetti di suicidio assistito conseguenti alla somministrazione di farmaci o prodotti naturali o chimici.

Solo il medico è in grado di fare correttamente codeste valutazioni e distinzioni, ed esse sono parte della suo comportamento responsabile. Tali distinzioni sono fuori della possibilità conoscitiva del malato anche se capace, del fiduciario e dei familiari, pur dopo tutte le spiegazioni del medico.  Siamo di fronte nei casi di “Fine Vita”, alle  più complesse diagnosi e terapie mediche e non è pensabile che di esse si possa rendere conto appropriatamente una persona estranea alla scienza medica. Vanno quindi modificati gli artt. 1 c. 5 e 6, non nella parte in cui promuovono un dialogo fra medico e paziente ma nella parte in cui stabiliscono l’assoluta sovranità della decisione del paziente e, in corrispondenza, l’esenzione da responsabilità del medico. Inoltre appare privo di reale rilievo l’emendamento aggiuntivo di cui all’ultimo periodo del sesto comma che pone il medico in una situazione impossibile, nel contrasto fra le sue norme professionali e la statuizione legislativa di un diritto al rifiuto (di cui al primo periodo del comma 5) diritto che non potrà, in sede contenziosa, che essere ritenuto prevalente rispetto alle “norme deontologiche” e alle “buone pratiche”, a quel punto superate dal dettato legislativo. Il medico quindi ancora una volta sarà spinto a ottemperare alla volontà del paziente per evitare pericolose questioni di responsabilità. Allo stesso modo vanno modificati l’art. 3 e l’art. 4.

In definitiva il diritto al rifiuto delle cure non potrà essere considerato assoluto. Ciò non significa che al paziente, ai suoi rappresentanti o alle DAT non possano essere attribuite opzioni volontarie. Queste potranno riguardare la terapia del dolore, l’uso dei sedativi e della sedazione profonda, oppure  cure eccessive e non proporzionate al fine, oppure ancora cure di tipo sperimentale senza certezza dell’esito. Andranno invece lasciate ai medici e alle strutture le altre e diverse decisioni sui trattamenti. Inoltre il ricorso al giudice in caso di contrasti fra medici e pazienti o fra medici e fiduciari appare irrealistico e, anche qui, sbilanciato sul versante del rifiuto delle cure soltanto che si considerino i presumibili tempi lunghi della giustizia e nel contempo la forzata sospensione delle cure.

1.2.3. L’obiezione di coscienza

In terzo luogo  si formula una osservazione che vale cautela e riserva qualora la Commissione comunque intendesse procedere con il testo attuale.

Il testo attuale apre indubitabilmente a ipotesi eutanasiche se non anche a ipotesi permissive del cd. suicidio assistito. Si consideri soltanto la latitudine delle previsioni del comma 5 dell’art. 1 per il quale il diritto di rifiuto o di revoca comprende ogni trattamento sanitario o parte di esso compresi la “nutrizione artificiale” e l'”idratazione artificiale”. In questi casi  il medico e il personale sanitario possono essere messi di fronte a un gravissimo problema di coscienza.  Secondo una tradizione continua nella legislazione italiana è sempre stata prevista la possibilità della obiezione di coscienza che dalla Corte costituzionale (Sentenza n.467 del 1991) è stata ritenuta “scelta costituzionalmente obbligatoria” a tutela di un valore e di un diritto tutelato dalla Costituzione.

Va quindi prevista espressamente l’obiezione quale esonero dall’obbligo di collaborazione (da parte di medici, personale sanitario e strutture sanitarie con diversa impostazione ideale e culturale) agli atti soppressivi di una vita; esonero dall’obbligo relativo che deve essere incondizionato e privo di conseguenze negative.

A questo proposito la previsione dell’art. 1 c. 6 di esonero da obblighi professionali (e quindi dalla relativa responsabilità) nei casi in cui il paziente richieda trattamenti “contrari a norme di legge, alla deontologia professionale e alle buone pratiche clinico-assistenziali”, come si è già chiarito, appare priva di vero rilievo giuridico. Infatti la “deontologia” e le “buone pratiche”, una volta approvato il progetto di legge sul fine vita, andranno adeguate al nuovo dettato normativo a meno che non si voglia svuotare di ogni contenuto lo stesso progetto. Inoltre la previsione dell’art. 1 c. 6 sembra riferita solo ai casi di eutanasia attiva o di suicidio assistito e non ai casi di eutanasia passiva (richiesta di trattamenti e non omissione di trattamenti). In definitiva tale previsione può attualmente solo escludere la responsabilità del medico che si astenga dai trattamenti nei casi definibili di “suicidio assistito” (qualora se ne possa ritenere la sussistenza), ma certamente non vale a togliere la necessità e la doverosità di una previsione espressa del diritto all'”obiezione di coscienza”.

 

  1. Forma espressiva ambigua e sottilmente decettiva del Progetto

Infine a riguardo della formulazione del progetto di legge si è accennato al linguaggio poco chiaro, ambiguo e sottilmente ingannevole del progetto. Questo carattere si è fortemente accentuato con l’avanzare dell’esame alla Camera del progetto e la pretesa sempre più evidente di esso di costituire una legge di principio.

Anziché sviluppare la realistica funzione di aggiornare un’ampia e dettagliata legislazione di principio già esistente, con poche norme destinate al suo adeguamento ad alcuni avanzamenti della scienza medica, il progetto si apre con formule di principio e dichiarazione di diritti che vogliono sostituirsi ai principi precedenti ma che non contengono poi le necessarie specificazioni e declinazioni per dirimere i contrasti fra nuovi e vecchi criteri; il tutto ponendosi nella scia di una diffusa e viziosa prassi legislativa che utilizza i testi di legge come bandiere politiche.

L’art. 1 c. 1 sotto il modesto titolo di “consenso informato” affastella la tutela della vita, della salute, della dignità e dell’autodeterminazione del paziente sostanzialmente per affermare il diritto all’autodeterminazione del paziente quale specifico nuovo rilevante limite in contrapposizione alla tutela dei predetti beni della vita, della salute, della dignità. Contro il significato tradizionale del “consenso informato” e contro la tutela degli altri beni citati, ora la tutela è rivolta in modo nuovo e privilegiato all'”autodeterminazione del paziente”.

L’art. 1 c. 2 che nel suo incipit sembrerebbe valorizzare “la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico” nel seguito in realtà mortifica la figura del medico riducendolo a semplice esecutore delle decisioni del paziente e, in modo equivoco e confuso, inserisce in tale “relazione di cura” familiari, conviventi e fiduciari. Si stabiliscono poi i “diritti” di conoscere, di rifiutare, di dare disposizioni anticipate riguardo ai trattamenti sanitari, sempre nella attuazione del proclamato principio dell’autodeterminazione .

Infine la ricordata forma espressiva del DDL, vaga ed equivoca, e che tuttavia vuol essere quella di una legge di principio, appare ulteriormente pericolosa, sia perché può prestarsi a variegate ed  evolutrici interpretazioni giurisprudenziali, sia perché può inaugurare un trend, nella prassi medica, nella giurisprudenza ma, soprattutto, nella futura legislazione, di incontrollato e indefinito sviluppo del principio di autodeterminazione nelle decisioni di vita.